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LA BATTAGLIA GLOBALE DELL’AUTOMOBILE


Sintesi della lezione tenuta dal Centro di documentazione “Antonio Labriola” il 19 ottobre al corso di Storia contemporanea, triennale e magistrale, del Dipartimento di Lingue e letterature straniere e culture moderne dell’università di Torino



Lotta tra imprese, lotta tra le potenze

LA BATTAGLIA GLOBALE DELL’AUTOMOBILE



Una storia particolare


La storia degli ultimi cento anni non può fare a meno di considerare l’automobile. Sviluppo economico e crisi, guerre e petrolio, acciaio ed elettronica, moda e design, finanza e urbanizzazione, sindacati e governi, scuola e tecnologia hanno dovuto fare i conti con questo mezzo di trasporto che tuttavia, fin dai suoi esordi, non è mai stato “solo” un mezzo di trasporto: «L’industria automobilistica è la maggiore industria del mondo, unica nella sua combinazione di produzione di uno dei beni durevoli più significativi, casa di alcuni dei marchi più famosi, fonte di uno dei più vasti assortimenti di tecnologie, con un’organizzazione senza confronti e su scala veramente globale»1.



Alcune cifre illustrano bene la centralità strategica del settore: il fatturato complessivo annuo è di circa 2.200 miliardi di dollari; il suo peso è circa il 10-12% del PIL di USA, Europa e Giappone; gli addetti diretti sono 11 milioni che, con le varie filiere dell’indotto, arrivano a 50 milioni. Si tratta di un comparto in espansione e modernissimo. Nel 2005 circolavano nel mondo 892 milioni di veicoli, tra passeggeri e commerciali; quindici anni dopo la circolazione mondiale è salita a 1,3 miliardi, con un aumento del 44%.

La motorizzazione di massa, oggi in corso in Cina o in Brasile, è un indice certo e quantificabile di industrializzazione: le strade asfaltate, le grandi arterie nazionali ed internazionali, le infrastrutture non mutano solo il panorama “naturale”, ma anche i tempi e i modi delle relazioni private o pubbliche della vita quotidiana.

Per questa ragione l’auto ha incarnato una quantità tale di significati ideologico-simbolici nell’arte, nella letteratura, nella cinematografia e in tutte le forme di espressione culturale da renderne difficile, se non impossibile, un censimento completo.



I marchi delle case produttrici, noti a tutti, sono spaccati di mondi che si aprono – con la loro storia di modelli produttivi che spaziano dalla catena di montaggio alla lean production 
– e che condizionano la stessa coscienza nazionale di Stati e potenze. Marchi che coincidono talora, come per Ford, Fiat, o Toyota, con le vicende di vere e proprie moderne dinastie del capitale, con tanto di contrastate successioni, drammi che finiscono per essere cronaca mondana, economica o addirittura nera. Non è un caso che molti stabilimenti – dal Lingotto o dalla Mirafiori di Torino a Highland Park a Detroit – siano diventati “monumenti” involontari o, se si vuole, giganteschi reperti indispensabili per comprendere i caratteri della nostra epoca. E non è un caso se i luoghi della produzione dell’auto siano spesso identificati come simbolo di battaglie sindacali, di ristrutturazioni, come pure dei mutamenti nelle tecniche e nell’organizzazione industriale. Il mondo dell’auto offre quindi un prisma ottimale per visualizzare praticamente l’ambivalenza dei rapporti sociali contemporanei: la loro capacità di creare enormi apparati globali che organizzano l’attività di milioni di uomini, ma anche il caos del mercato che condanna il settore ad una sovrapproduzione endemica, foriera di cicli altalenanti, in cui il boom di vendite è la premessa per le crisi future e viceversa.

Nel corso di questo secolo, l’auto ha rappresentato anche un metro di misura efficace per valutare i rapporti di forza tra le principali potenze in grado di indirizzare la politica mondiale e per valutare, nel contempo, il passaggio di testimone da un assetto delle relazioni internazionali ad un altro.




Un gigantesco mutamento
nei rapporti tra le potenze


L’auto nasce alla fine dell’800 come prodotto europeo che sposa la tecnologia motoristica tedesca dei Daimler con l’imprenditoria francese dei Peugeot: un prodotto costoso e tarato sul consumismo della classe aristocratica ed alto borghese. Qualche decennio dopo diviene il simbolo dell’ascesa della potenza americana, con il taylorismo e l’affermazione delle big three, General Motors, Ford e Chrysler: l’auto diviene un prodotto di massa, in cui anche l’aspetto pubblicitario gioca un ruolo fondamentale. Nel secondo dopoguerra, attraverso l’auto, si possono cogliere i boom economici dell’Europa – si pensi al miracolo tedesco e alla Volkswagen, alla FIAT per quello italiano – e del Giappone, si pensi a Toyota e al toyotismo. Oggi è la volta dell’Asia e della Cina, nuovo baricentro dell’economia, della finanza, dell’industria.

Il mercato cinese dell’auto è di gran lunga il più importante del mondo con un volume di circa 28 milioni di unità vendute, un terzo del totale. La presenza nel mercato cinese, per i volumi di fatturato in palio, è diventata per le imprese automobilistiche globali una questione di vita o di morte.

La decisione delle autorità cinesi di imporre una quota di vetture elettriche ad ogni azienda produttrice sul proprio territorio nazionale2 ha così innescato una gigantesca ondata di investimenti: su 300 miliardi di euro investiti direttamente sull’auto elettrica, ben 136 sono localizzati in Cina. Per inciso, oggi quasi un quarto della produzione elettrica mondiale in Watt generata nel mondo è cinese. E nei prossimi 20 anni la Cina raddoppierà la generazione elettrica e investirà allo scopo 4.500 miliardi di dollari, più di quanto spenderanno USA ed Europa messe insieme. D’altro canto, il 76% delle batterie agli ioni di litio viene oggi fabbricato in Cina, che detiene, attualmente, il 50% delle infrastrutture di ricarica.

Secondo una stima plausibile, l’intero processo di riorganizzazione produttiva riguarderebbe circa un terzo del prodotto interno lordo delle potenze più avanzate. Da notare che a guidare la rincorsa al motore elettrico sono i gruppi tedeschi, in particolare Volkswagen e Daimler, in una ristrutturazione europea che si coniuga perfettamente con il “Green Deal” perorato dalla Commissione UE. Va anche doverosamente aggiunto che questa gigantesca ondata di investimenti si lega oggettivamente alla diffusione delle ideologie ambientaliste che a loro volta si connettono ad un gigantesco marketing “ecosostenibile”. In un articolo del giugno 2019 della rivista “L’automobile” dal titolo “Herbert e Greta”, si legge significativamente: «Herbert Diess, numero uno del gruppo Volkswagen, potrebbe aver trovato nella giovane attivista svedese [Greta Thunberg] un alleato insperato per rivoluzionare l’intera industria automobilistica tedesca». Ciò non toglie che l’introduzione del motore elettrico comporterà una trasformazione profonda e traumatica dell’intero comparto, e non solo.





La costante dell’incertezza


Il giudizio di “Automotive News” nel luglio 2017 sulle prospettive del mondo dell’auto, pur usando un’immagine colorita, non lasciava però molto spazio all’immaginazione: la diffusione del motore elettrico «potrebbe essere come il meteorite che ha distrutto i dinosauri». La rivista aggiungeva un’importante proiezione: entro il 2030, dei primi 100 produttori mondiali di componenti per auto, 75 potrebbero essere spariti o drasticamente ridimensionati. La società di consulenza del settore energetico Navigant Research, nell’aprile 2018, aggiungeva in sintesi: «L’unica costante prevedibile è l’incertezza».

Le trasformazioni saranno profondissime e coinvolgeranno settori come l’informatica e le telecomunicazioni, quindi anche gruppi come Microsoft, Google, Panasonic, Apple, Intel, e poi tutti i colossi elettrici ed energetici. Le infrastrutture stradali saranno impegnate a fondo perché bisognerà disseminare le città di colonnine per la ricarica, senza contare l’adattamento alle tecnologie per la guida autonoma o assistita. Anche la società e le classi sociali subiranno sconvolgimenti traumatici. 



Un fenomeno come quello dei “gilet gialli” in Francia, nato proprio sull’onda delle proteste per l’aumento delle imposte sul carburante, può fornirne un primo validissimo esempio.

Nell’ipotesi di un totale divieto del motore a combustione interna, l’IFO di Monaco di Baviera calcola 600 mila posti di lavoro a rischio nella sola Germania entro il 2030. Alberto Bombassei, patron della Brembo nonché presidente della Fondazione Italia-Cina, valuta che il motore elettrico metterebbe a rischio un milione di posti di lavoro in Europa ed in ogni caso «nell’industria dell’auto non è mai successo nulla di così radicale»3. La valutazione di Morgan Stanley è di tre milioni di posti di lavoro a rischio a livello mondiale.

Tra posti di lavoro persi e guadagnati potrebbe (forse!) verificarsi somma zero: la transizione energetica cioè crea e distrugge posti di lavoro. È nella natura del capitalismo: distruzione e creazione di capitale e posti di lavoro coesisteranno, certo, ma «gli esseri umani non sono numeri, sono persone vive con cervello, cuore, muscoli, nervi, sentimenti, idee, immaginazione, legami famigliari, amicizie»4. Le trasformazioni non saranno quindi indolori, perché gli esuberi di una branca produttiva, poniamo l’assemblaggio dei pistoni, non è affatto garantito che si spostino nelle imprese energetiche o informatiche; o perché taluni distretti “specializzati” entreranno in decadenza e verranno progressivamente emarginati

«Io caratterizzo questo periodo come darwiniano», affermava
Carlos Tavares, amministratore delegato del gruppo PSA, intervistato da “BFM Business” il 10 settembre 2019.
 Tavares ricoprirà lo stesso incarico del nuovo gruppo chiamato Stellantis che deriva dalla fusione tra FCA e PSA. Al di là delle dimensioni di un colosso che si colloca al quarto posto nella classifica mondiale dei produttori, si combineranno in un unico organismo produttivo, lavoratori italiani, francesi, polacchi, serbi, turchi, americani, messicani, algerini, cinesi… Affrontare consapevolmente queste enormi trasformazioni sarà un compito ineludibile anche per un sindacato che, se non vuole farsi travolgere, dovrà assumere almeno una dimensione europea. E d’altro canto, una visione che tenga effettivamente conto degli interessi comuni dei salariati, e non solo nel settore dell’auto, non può che essere internazionale ed internazionalista.









Crisi pandemica e settore automobilistico


La crisi pandemica, come in altri campi cruciali della vita
economica e sociale e persino nel sistema degli Stati non ha fatto altro che accentuare ed evidenziare tendenze che erano già in corso. Gli stessi fenomeni sociali che hanno favorito l’insorgere e lo sviluppo dell’industria automobilistica, urbanizzazione e mobilità, hanno contribuito a diffondere con maggiore velocità l’epidemia su scala planetaria. L’impatto in termini sanitari è ancora ben lungi dall’essere definitivo ed è clamorosa l’imprevidenza con cui l’attuale organizzazione sociale si è fatta prendere alla sprovvista di fronte alla comparsa del virus, peraltro più volte paventata dalla letteratura scientifica e da molte organizzazioni internazionali. Ospedali allo stremo anche nelle aree del mondo a “sanità garantita”, mancanza di beni elementari di protezione come mascherine e camici per il personale ospedaliero, carenza di reagenti chimici, fino alla lite tra poteri locali e centrali e alla mancanza di coordinamento nella ricerca del vaccino divenuto di per sé strumento nella competizione geopolitica tra le potenze.

In termini economici si configura un tracollo di molto superiore, almeno il triplo, alla crisi già considerata “epocale” del 2008-2009. La Banca Mondiale5 la definisce come la recessione più profonda da otto decenni, peraltro l’unica originata da una pandemia: considerando il PIL pro capite, è la recessione più estesa dal 1870, per numero di paesi coinvolti, e due volte più profonda della crisi del 2009: -6,2 contro -2,9%. Immediato, massiccio e “preventivo” è stato l’intervento di governi e Banche centrali, le cui misure equivalgono sommate ad un quinto del PIL mondiale6. Si configura perciò un ciclo keynesiano mondiale in cui le incognite futura saranno lo smaltimento del massiccio debito contratto nelle attuali circostanze ed i ritmi ineguali della ripresa tra macroaree e potenze di stazza continentali, dove anche in questo caso la Cina si presenta ai nastri di partenza in posizione di vantaggio, con un ritmo di crescita per il 2020 previsto intorno al 2%, contro un passivo mondiale del 4,5%, il calo USA del 4,3% e dell’Eurozona dell’8,3%.

Ma c’è un altro aspetto che i giganteschi piani di intervento “pubblico” finiranno per esaltare: i processi di ristrutturazione industriale, marchiati con la benedizione “ecologica”. Secondo l’“Economist” l’industria automobilistica rischia di veder diventare obsoleto gran parte del suo capitale fisso, valutato sull’ordine di 1.300 miliardi. Per il settore si stima un crollo delle vendite sul mercato mondiale a 70 milioni di unità contro i 98 milioni del 2018 e una sovraccapacità di un terzo. Nella UE l’associazione dei costruttori ACEA stima che il 2020 si chiuderà con un calo del 25% nelle vendite e paventa che, senza interventi di governi e Commissione, il settore possa perdere ben oltre i 440 mila posti bruciati dalla crisi del 2008-2013.

Secondo Alix Partners, nei prossimi tre anni nel mondo saranno vendute 44 milioni di auto in meno, con 1.300 miliardi di fatturato persi, e solo tra cinque anni ci sarà un ritorno ai livelli pre-Covid. E di nuovo la Cina avrà un recupero più veloce, salendo a 28 milioni di immatricolazioni rispetto ai 25 del 2019, segno che Pechino sarà decisiva nella battaglia dell’auto7. In Europa il Recovery Fund varato dall’UE e pari a 750 miliardi di euro si ammanta del vestito “green” anche per fronteggiare questi nuovi drammatici scenari. Una cosa è certa: sull’altare del green sostenuto dalle ideologie sul clima verranno bruciati migliaia di posti di lavoro, per la creazione di quei “campioni europei” che possano competere coi colossi cinesi e americani. Un altro punto non può essere eluso: i piani di intervento statale, con gli inevitabili già citati richiami al keynesismo, vengono comunemente paragonati a quelli messi in campo negli anni Trenta, preludio non già ad una crescita equilibrata ed armonica ma al riarmo, a tensioni accentuate nelle relazioni internazionali e a nazionalismi estremi. L’odierno sciame sismico globale di guerre, scontri, dimostrazioni di forza che dalla Libia, all’Egeo, alla Siria, al Nagorno-Karabach giunge fino al mar Cinese meridionale conferma il parallelo in tutti i sensi. Il Premio Nobel Krugman, “keynesiano” di ferro, nel corso del primo anno della presidenza Obama, durante cioè il picco della crisi arrivò a scrivere: «A salvare l'economia, e il New Deal, fu l'enorme progetto di opere pubbliche meglio noto come Seconda guerra Mondiale»8.




Perpetua insicurezza capitalistica


Nell’aprile del 2015, l’a.d. di FCA Sergio Marchionne (1952-2018) pubblicò una breve serie di slide dal titolo “Confessions of a Capital Junkie9: una citazione esplicita del testo di William Burroughs “La scimmia sulla schiena” che racconta della crisi di astinenza di un tossicodipendente. Qual è la dipendenza cui si riferiva Marchionne?

Secondo Marchionne i costi di sviluppo dei prodotti «stanno consumando valore a un tasso molto più rapido rispetto ad altri settori», mentre l’elevato impiego di capitali amplifica «la volatilità della redditività lungo il ciclo». Volumi enormi di investimento sono in pericolo, argomentava Marchionne, se la dimensione delle imprese non arriva ad una soglia effettivamente globale, garantendo la condivisione di piattaforme e componentistica, la messa in comune di conoscenze e tecnologie. La chiusa era affidata ad una frase di “Attraverso lo specchio” di Lewis Carroll: «Ti serve tutta la tua capacità di correre per restare nello stesso posto, ma se vuoi andare da qualche altra parte devi correre almeno il doppio più veloce di così». Tali confessioni investono quindi in pieno la contraddizione tra forze produttive, che assumono una potenza effettivamente sociale, e l’involucro dell’appropriazione privata in cui sono rinchiuse e costrette: un punto nodale della critica di Karl Marx al modo di produzione capitalistico.

Le profonde trasformazioni che investono il settore dell’auto rimandano anche alla precarietà strutturale del capitalismo: «La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. [...] Questo continuo sovvertimento della produzione, questo ininterrotto scuotimento di tutte le condizioni sociali, questo moto perpetuo e perpetua insicurezza, contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le altre che la precedettero». Sono considerazioni che troviamo nel “Manifesto del Partito comunista” del 1848: in un mondo in cui «l’unica costante prevedibile è l’incertezza» appaiono di grandissima attualità.





1 G.P. Maxton, J. Wormald, “Time for a Model Change: Re-engineering the Global Automotive Industry”, Cambridge Univ. Press, 2004.
2 Entro il 2025 dovrà essere pari al 25% del totale.
3 Intervista a “Il Sole 24 Ore”, 27 gennaio 2019.
4 “Lotta Comunista”, ottobre 2019.
5 “Global Economic Prospects”, giugno 2020
6 Le Banche centrali nel mondo hanno aumentato i loro bilanci a 7.500 miliardi di dollari. I provvedimenti fiscali adottati globalmente sono pari, a giudizio del FMI, a 12 mila miliardi di dollari.
7 “Lotta Comunista”, settembre 2020.
8 “La Repubblica”, 12/11/2009.
9 Traducibile con: “Confessioni di un drogato di capitale”.