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Letture a cura del Circolo LaAV di Torre Pellice



Letture a cura della LaAV 
(Lettori ad Alta Voce) di Torre Pellice




Il mito della velocità, la realtà della produzione 


Il futurista italiano Tommaso Marinetti (1876-1944) è tra i primi cantori dell’epopea dell’automobile, intesa come velocità e rottura con il “lento” passato. Con foga il futuro “accademico” fascista sostenne l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale: paradossalmente, quell’immane massacro si rivelò uno statico confronto di posizione.

I riferimenti del componimento, in prima stesura scritto in lingua francese, sono l’universo e le stelle, quasi a significare che di fronte all’auto la tradizionale dimensione terrestre – monti e fiumi – risulta insufficiente. Pur elogiando la modernità, Marinetti ignorava i reali risvolti pratici della motorizzazione: le stazioni di rifornimento, la rete di necessarie infrastrutture, le autostrade, i gruppi finanziari che garantiscono gli acquisti rateali. Questo è il vero universo che si sviluppa dall’auto: invece dei poeti entrano in campo gli ingegneri, in luogo di “prede siderali” società anonime che promuovono il credito al consumo, al posto del «gran letto celeste» stabilimenti con migliaia di operai. Quest’opera di Marinetti, tuttavia, risulta interessante perché anticipa molti slogan pubblicitari che nei decenni successivi presenteranno l’auto non come mero mezzo di locomozione ma come status symbol, spesso esaltato come quasi etereo, «veemente» e «avido di orizzonti».



L’alba dell’auto

William Faulkner (1897-1962) nel suo “I saccheggiatori” narra dei primordi dell’auto nella campagna americana all’inizio del Novecento. Il racconto si incentra sul passaggio che porta il veicolo a quattro ruote dapprima a competere poi a soppiantare il leggendario cavallo dei cowboys e dei coloni diretti verso il West, «l’inevitabile destino meccanizzato» della nazione americana. Una gara di cavalli è il nucleo della narrazione, ma il premio per i vincitori è proprio il possesso di un’auto. Non vi è nulla di romantico nella descrizione del nuovo mezzo di trasporto che solleva grandi polveroni per l’inadeguatezza delle strade, fumo e un gran baccano, oltre a fare strage di animali domestici che razzolano liberi nella campagna. Quello che attrae è il senso di libertà, di movimento e di “velocità”, anche se l’efficienza del trabiccolo agognato ne “I saccheggiatori” oggi non può che fare sorridere: 130 chilometri percorsi in… 23 ore! L’odierna velocità considerata “normale” per l’auto è il sintomo dell’accelerazione assunta dall’intero metabolismo sociale, dalla produzione al mercato, dall’investimento al profitto e, a ben vedere, dallo sviluppo alla crisi.


L’auto degli aristocratici

Cesare Pavese (1908-1950) nei suoi racconti degli anni Trenta raccolti in “Ciau Masino” più volte inserisce l’automobile come elemento centrale della trama. In “La zoppa”, Pavese mette in luce quanto l’auto dei primordi fosse uno strumento di trasporto riservato agli aristocratici e ai benestanti, impossibile da raggiungere per i redditi degli operai che pure l’auto la costruivano. L’utilizzo del francese per termini come “chauffeur”, “garage” o “chassis” tradisce l’origine transalpina dell’automobile, aggiungendo un tratto linguistico inevitabilmente, anche se involontariamente, elitario. Il giovane meccanico esperto di cilindri e candele, capace di aggiustare una “Chrysler” in panne, verrà assunto da un conte piemontese: tra le prime regole del nuovo impiego il considerare l’auto «come un salotto» e la necessaria «dignità nell’aprire lo sportello». Modi che il meccanico non comprende e che considera semmai il residuo di un’epoca al tramonto.




Gli standard del Modello T


Il Modello T della Ford è la prima vera automobile “popolare”. Costruito dalla Ford negli anni Venti raggiunse vette di produzione impensabili appena prima della Grande guerra: milioni di esemplari che cambiarono la vita degli americani nelle città e nelle campagne. I suoi pezzi di ricambio standard, la sua duttilità e la sua praticità segnano la fine dell’auto come emblema della ricchezza aristocratica. John Steinbeck (1902-1968) in “Furore” narra delle vicende di una famiglia rovinata dalla crisi del 1929 che dall’Oklahoma emigra in California alla disperata ricerca di un futuro migliore (o di un futuro tout court) a bordo di un’auto stracarica di masserizie e umanità sofferente. In “Vicolo Cannery” il racconto è meno drammatico, ma l’auto è comunque indispensabile per lo svolgimento della trama. Il Modello T, scalcagnato eppure sempre in movimento, è il mezzo di trasporto dei “paesanos” di Monterey: i nuovi Don Chisciotte si muovono su auto prodotte a Detroit.





La corsa automobilistica


Le auto sono l’assemblaggio materiale di qualche decina di migliaia di componenti: sono cioè il risultato di una tecnica e di una organizzazione logistica che rimanda a una produzione effettivamente sociale. Le competizioni automobilistiche fin dai primordi sono state il confronto tra capacità tecniche, frutto di un lavoro collettivo, e capacità sportiva individuale. Ma anche il miglior pilota ha bisogno di un mezzo efficiente, di ricambi impeccabili, della divisione del lavoro applicata nel più minimo dettaglio nella ristrettissima officina dei box. Erich Maria Remarque (1898 - 1970), di cui ricorre il cinquantesimo della scomparsa, nei “Tre camerati” descrive l’amicizia tra tre giovani, legati dalla comune esperienza della partecipazione alla Prima guerra mondiale, ma anche dalla passione per i motori e la velocità. Dai loro dialoghi si coglie l’orgoglio di possedere strumenti così complessi eppure così maneggevoli e di utilizzarli in gare spericolate, ancora slegate dal ricco mondo odierno di sponsor e di circuiti mediatici. Anche l’auto per i tre amici assume un nome proprio (“Carla”), a testimonianza di una familiarità che ormai è così diffusa da non essere neanche più notata.






La “giungla d’asfalto” delle metropoli


William Burnett (1899-1982) coniò una delle definizioni più famose della vita cittadina, la “giungla d’asfalto” immortalata nel celeberrimo film di John Huston. È la storia di una sfortunata rapina in una metropoli che appare senza speranza, avida e arida. Un quadro in cui l’auto si trasforma in mezzo semovente per le rese dei conti tra gangster della Chicago degli anni Trenta o per atti criminosi che ormai poco hanno a che vedere con le vicende romantiche dei bassifondi ottocenteschi. In “Giungla d’asfalto” i delinquenti sono anche “tecnici” e devono di necessità essere anche efficienti: pianificano i loro colpi sui tempi cronometrati in alcuni secondi, conoscono gli schemi degli impianti elettrici e naturalmente guidano l’auto. L’arrivo sul luogo della rapina è un catalogo dei luoghi e degli uomini che popolano la città, il nuovo ambiente naturale capitalistico in cui si determinano le occasioni, le fortune o le sventure di milioni di uomini.






La condizione operaia


Dalla sua esperienza alla Renault, alla Citroën ed in altre fabbriche francesi degli anni Trenta, Simone Weil (1909-1943) ricavò memorie e appunti sulla “Condizione operaia”. Al netto dell’impianto pervaso di emotività e considerazioni etiche, tali memorie descrivono le trasformazioni della forza lavoro degli stabilimenti automobilistici. Si conosce così la realtà del lavoro a cottimo, da cui si deduce la presenza della manodopera femminile, in genere non specializzata. Non è ancora la moderna linea, con i tempi imposti da misurazioni ergonomiche e cronometriche, ma ormai anche gli operai più qualificati vengono considerati “intercambiabili”, non più artigiani della lastra di metallo o della meccanica di precisione. È evidente l’alienazione dei lavoratori, nei gesti della quotidianità come nella comprensione del risultato finale: se la pianificazione del lavoro all’interno dello stabilimento è ferrea, il destino commerciale del prodotto è affidato alla casualità, che applicata alla scala odierna della concorrenza globale diventa imprevedibilità e azzardo. Tutti i produttori sono soggetti, comunque, al mercato che non è una salvifica “mano invisibile”, ma l’incertezza ed il caos elevato a sistema.






L’automobile va alla guerra


Nel 1914 la mobilitazione dei soldati francesi sul fronte della Marna si avvalse della collaborazione di centinaia di taxi con il marchio Renault: automobili e camion furono immediatamente arruolati nel conflitto, cambiando la logistica dei trasporti militari. Da allora le auto accompagnano tutte le guerre, grandi e piccole: dalle jeep dell’esercito americano nello sbarco in Normandia o negli atolli del Pacifico ai SUV delle fazioni libiche nel deserto tra Tripoli e Bengasi. Lo scrittore russo Vasilij Grossman (1904-1964) dopo l’esperienza diretta di tre anni come corrispondente al fronte del regime sovietico, si allontanò dallo stalinismo e diverse sue opere vennero pubblicate postume e fuori dall’URSS. In “Vita e destino” intrecciò le storie dell’assedio di Stalingrado, della ritirata tedesca con le tragedie parallele dei gulag e dei lager. Il suo intento era quello di scrivere una sorta di “Guerra e pace” del XX secolo: si vedrà nel futuro se letterariamente il tentativo sia riuscito o meno. Rimane il fatto che l’incipit della sua opera immediatamente inserisce l’auto come elemento naturalmente presente nel paesaggio di guerra dei campi di concentramento. E insieme all’auto i camion, la ferrovia, le strade asfaltate, i semafori. La logica del campo di concentramento e del conflitto moderno non è spiegabile senza la conoscenza della logica dell’industria. Considerare la guerra come puro momento di irrazionalità e follia non spiega la sua fredda e spietata efficienza: occorrono categorie storiche più precise ed accertabili, come la geopolitica, le battaglie economiche, il profitto.






Dopoguerra in Germania, boom e Volkswagen


Attraverso l’espediente di una lettera inviata agli «egregi signori dello stabilimento Volkswagen» da parte di una ex dipendente, Günter Grass (1927) riassume in poche righe la storia della Germania dal nazismo alla sconfitta nella guerra, dalla divisione in due Stati, con il Muro di Berlino, fino al boom economico. La Volkswagen, “l’auto del popolo”, disegnata da Porsche su richiesta di Hitler diviene uno dei simboli della rinascita economica della Germania Occidentale: nella lettera la donna, che per ventura è andata ad abitare nella zona di occupazione sovietica della capitale, rivendica il “Maggiolino” a cui avrebbe diritto per le rate versate in anni di duri sacrifici. Ma abitare nella DDR comporta anche il fatto di essere «tagliati fuori da tutto», lamenta la donna, e le richieste cadono nel nulla. L’unificazione tedesca verrà preceduta nel 1990 dal passaggio in massa delle Trabant nella zona Ovest di Berlino: il loro motore a due tempi e la miscela come carburante, nel confronto con le Golf della Volkswagen, rappresentavano agli occhi del mondo quella differenza di produttività e di tecnologia che era alla base della dissoluzione dell’URSS. Il settore dell’auto con la sua forte simbologia segue ed esemplifica i mutamenti nei rapporti di tra le potenze, in cui la capacità di investimento e la forza della moneta costituiscono criteri inaggirabili.






La sfilata delle station wagon


In “Rumore bianco” di Don De Lillo (1936), la descrizione del ritorno al campus di un gruppo di studenti dopo le vacanze offre uno spaccato dell’opulenza della società industrializzata, in particolare della compiuta realizzazione del “sogno americano”. Le station wagon sono la rappresentazione automobilistica della sicurezza, dell’abbondanza di beni di ogni tipo, garantita dal possesso del bene per eccellenza, il denaro o il suo alter ego, i certificati azionari e assicurativi. Il resto del mondo sembra lontano da questa sfilata di autoveicoli di grossa cilindrata che conferma uno status raggiunto, «valori simili, un popolo, una nazione». Il libro è scritto negli anni Ottanta, nel pieno dell’epoca reaganiana del liberismo imperialista. Devono ancora arrivare le disillusioni amare causate dallo scoppio delle bolle speculative della “New Economy” e soprattutto del crollo di Lehman Brothers: il mondo quindi non solo non era lontano, ma ha fatto irruzione pesantemente nei cliché consolidati della crescita eterna e garantita.